Cala il Covid, non si dimentichi cosa ci ha insegnato: più umanità a malati e famiglie

Cala il Covid, non si dimentichi cosa ci ha insegnato: più umanità a malati e famiglie

Non muoiono cani, ma uomini e donne. Dietro i numeri dei decessi per Covid che ogni giorno i bollettini snocciolano, ci sono padri, madri, figli, sorelle, mogli e mariti. “Sono persone che muoiono” – dice Lucia Attanasi che a 48 anni ha perso suo marito Donato. Persone che spesso non hanno il rispetto dovuto, loro come le rispettive famiglie lasciate sole, senza una parola di conforto, senza un supporto psicologico. “E’ terribile – dice Lucia – quello che accade quando un proprio caro muore per Coivd e il personale ospedaliero deve avere quell’umanità necessaria verso la famiglia del paziente, che è sospesa con lui tra la speranza e l’angoscia.”

Quelle parole che si aspettavamo Lucia e sua figlia, che cercavano di tirar fuori dal personale della rianimazione Covid del Dea di Lecce, per avere delle spiegazioni e dei chiarimenti in più, non le hanno trovate. Se ci fossero state però, avrebbero dato quella quiete della quale le donne di Donato avevano bisogno. “Invece – ricorda la moglie – mi hanno consegnato mio marito chiuso in un sacco e non l’ho potuto nemmeno vedere, senza una parola di più. Trattati come cani me e mio marito.” Questo Lucia non può accettarlo. Vuole rispetto per il suo Donato, e vuole dare un senso alla morte di suo marito, chiedendo che non accada più quello che è accaduto a lei.

Se professionalmente Lucia non ha nulla da dire rispetto agli sforzi fatti da parte di medici e infermieri, umanamente invece punta il dito sulla poca umanità con la quale il personale della rianimazione Covid, ha affrontato la malattia di suo marito. Il Covid lascia tanto dolore, ma deve lasciare anche dei sani insegnamenti dei quali fare tesoro.

Donato Attanasi 55 anni di Soleto, il 10 aprile scorso contrae il Corona virus, probabilmente preso sul lavoro secondo quanto ricostruito dalla moglie. Accusa i primi sintomi: febbre alta e successivamente tosse secca. La moglie allerta subito gli organi competenti e il 12 aprile i medici dell’Usca visitano Donato, percependo qualcosa di sospetto al torace. Si procede al test del cammino: Donato cammina avanti e dietro per verificare il respiro, la presenza di affanno o meno, “ma le condizioni e i valori della satuazione, ovvero dell’ossigeno nel sangue – ci racconta Lucia – erano buone, attestandosi tra 95/96.”

Successivamente viene data una terapia a base di cortisone. Il giorno dopo il saturimetro indica che i valori dell’ossigeno nel sangue stavano scendendo, passando a 92. Lucia chiama per maggiore tranquillità il 118 che decide di ricoverare Donato. Era il 14 aprile e l’uomo si sentiva ancora bene, sale in ambulanza con le sue gambe, il borsone e uno zainetto sulle spalle, salutando moglie e figlia.

Il Covid é subdolo proprio perchè non ci si rende conto subito della gravità, perchè ci si sente bene anche quando la situazione è critica. Ci si ammala come se si avesse l’influenza, non si percepisce la gravità e non si sa che da un momento all’altro la situazione può precipitare, anche se si è sani e giovani. Così quando il respiro si fa troppo corto e si ha fame d’aria è già troppo tardi, ecco perchè Donato e la sua famiglia non immaginavano quello che poi sarebbe accaduto di lì a poco.

Donato viene tenuto una notte nel pronto soccorso di Galatina, in attesa che si liberasse il posto negli infettivi dove si ricovera il 15 aprile. Nel frattempo i medici del pronto soccorso riscontrano una polmonite bilaterale, impostano una terapia con maschera di Venturi al 40%. Si tratta di un dispositivo usato per l’ossigenoterapia ad alti flussi. Donato aveva bisogno di 10 litri di ossigeno al minuto. Agli infettivi l’uomo passa sotto la c-pap: un casco per ossigenoterapia sempre ad alti flussi e viene sistemato in posizione prona per diverse ore al giorno, per aiutarlo a respirare.

“Di tutto quanto accadeva – ci racconta Lucia – venivo avvisata dal personale del reparto, mentre ero a casa con mia figlia in quarantena perchè positiva.” Lunedì 19 aprile Lucia viene chiamata da un anestesista, che informa la donna dei valori dell’emogas preoccupanti, per questo le comunica la decisione di trasferire il marito nella rianimazione Covid del Dea di Lecce, in quanto luogo più adeguato in caso di complicanze.
“Lì sarebbe stato più sicuro in una rianimazione con personale più specializzato, monitor più adeguati, visto che Galatina una rianimazione non ce l’ha.” Donato viene quindi trasferito, un medico gli lascia gli occhiali e il cellulare per poter chiamare la famiglia, mentre gli altri effetti personali vengono consegnati alla cognata.

L’uomo riesce a chiamare la moglie la mattina seguente, poi continua a comunicare tramite messaggi per non affaticarsi. Era il 20 aprile, quando tra le 14 e le 15 Lucia riceve una telefonata da un anestesista del Dea, che riferisce alla signora le gravi condizioni di salute di Donato. Comunicazione frettolosa – a dire di Lucia – senza troppe spegeazioni. La donna però non vuole assillare il personale per evitare che sia contro producente e così si mette in contatto direttamente col marito, ma neanche dal diretto interessato Lucia riesce a capire cosa stia accadendo, quale terapia stia facendo. Solo il giorno dopo riesce a parlare con un medico, che a dire della donna, si limita a comunicare che la situazione di Donato è grave, ma stazionaria. Frase che Lucia si sentirà per diversi giorni, ogni volta che proverà a contattare il reparto. Intanto in pochi attimi – ci dice – viene liquidata dal medico che la lascia ammutolita. “Per fortuna c’erano le videochiamate – ci racconta – che facevo direttamente con Donato che si mostrava lucido, collaborante, seppure con gli occhi stachi e a volte impauriti.”

“I contatti con il personale del reparto di rianimazione Covid del Dea, sono sempre stati fugaci – ricorda la donna – con la solita frase: grave, ma stazionario e poi chiuso lì. Per un paio di giorni, non c’é stata alcuna comunicazione. Addirittura il numero del reparto risultava irraggiungibile. La paura era tanta, insistevo a chiamare – racconta la signora Attanasi – fino a quando un medico di turno pomeridiano risponde seccato che le notizie ai pazienti venivano rilasciate al mattino.”

Sabato sera Lucia sente il marito, nonostante stanco e provato, a lei è parso ancora sufficientemente forte. Si lasciano con la buonanotte e la promessa di Donato che una volta messo supino, avrebbe chiamato.
La mattina dopo, domenica 25 aprile, il telefono di Lucia squilla, ma non era Donato come si aspettava, ma il centralino del Dea. Una dottoressa avvertiva delle gravissime condizioni dell’uomo che nel frattempo era stato intubato e che nel giro di poche ore avrebbe potuto lasciare questa terra. Nel chiedere qualche spiegazione in più, la moglie viene liquidata dalla dottoressa che la prega di essere liberata perchè aveva da fare.

Sono ore concitate, in cui la signora con un barlume di lucidità riesce ad avvisare i parenti più stretti. Arrivano le sorelle di Lucia sino al cancello di casa sua, non oltre perché Lucia e sua figlia sono ancora positive. Madre, figlia abbracciano i loro parenti dall’uscio di casa, dove non potevano ricevere nessuno. Poi la chiamata alle 12 e 15 che comunica in poche e concise parole, il decesso di Donato.

“A 48 anni mi ritrovo vedova – ci dice la donna – con due ragazzi ventenni, che stavano portando avanti i loro studi. Ora è tutto stravolto. Io ho perso mio marito, i miei figli non hanno più un padre, abbiamo perso la colonna portante della nostra famiglia, con poche parole, senza nessuna ulteriore informazione.”

Nessuno ha chiamato la donna successivamente per consegnare gli effetti personali di Donato, per dare ulteriori comunicazioni sul decesso. Più volte Lucia ha contattato il reparto, ma a suo dire, è sempre stata rimandata da un infermiere all’altro, dalla caposala al medico. Quando la sorella di Lucia ha preteso un colloquio per avere dei chiarimenti sul decesso, minacciando di ricorrere ad altre vie, é stata messa in contatto con il primario: il dottor Pulito che, dopo più di una settimana dal decesso di Donato, ha ricevuto le donne spiegando passo, passo, quanto accaduto. “Il medico – ricorda la signora Attanasi – ha avuto l’infelice idea di dirmi che se gli gli avessi chiesto di vedere mio marito, me l’avrebbe fatto vedere. Mi sarei dannata per vederlo, stringerlo a me. Queste parole mi hanno ferito profondamente, non doveva dirmele ! Io non ho fatto in tempo a usufruire della nuova legge regionale che consente le visite dei parenti ai malati Covid”

Donato era giovane, aveva 55 anni, sano, senza alcuna patologia. “So che é stato fatto il possibile per farlo vivere – dice la moglie – ma l’umanità, le parole a noi familiari ci sono mancate tanto. Il Covid crea un vuoto che si può ridurre solo con le parole, quelle giuste però, diversamente non si ha percezione della realtà, si vive sospesi. Dopo la legge che consente ai parenti di andare a trovare il congiunto ricoverato, mi auguro che si dia possibilità alle famiglie di parlare con qualcuno che dia supporto, informazioni. Figure formate ad accompagnare pazienti e familiari nell’affrontare la malattia e nelle peggiori delle ipotesi nel prepararci al peggio.”

Lucia ha visto suo marito salire con le sue gambe in ambulanza, con lo zaino sulla spalle, per poi riceverlo chiuso in un sacco nero. Nel mezzo un vuoto, un dolore atroce, indelebile, che – dice Lucia – non abbandonerà mai me e i miei ragazzi, ma che può trovare un senso se nessun malato e nessun parente, affornti più la malattia solo e senza un briciolo di umanità.”

Roberta Grima
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